Offesa agli avvocati da parte del magistrato: limiti alla diffamazione
Per la Cassazione non ricorre il reato di diffamazione quando l’offesa sia rivolta ad una categoria e non a persone individuabili. (Sez. Unite – Sentenza 17 marzo 2017 , n. 6965)
Nel caso di specie, la Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura riteneva responsabile un magistrato dell’illecito di cui agli artt. 2, primo comma, lettera d), e 4, primo comma, lettera d), del D.Lgs. n. 109/2006, in quanto nell’ambito di una discussione avente ad oggetto l’andamento complessivo della giustizia e, in particolare, della giustizia civile nel foro di competenza del magistrato, quest’ultimo utilizzava la seguente espressione: “Come se l’intera avvocatura, senza distinguere fra avvocati preparati e validi e vere e proprie capre, fosse la vittima innocente di un sistema nazifascista, despota ed autoreferenziale, che non lascia loro diritti né spazi operativi…”.
Ebbene, la sezione disciplinare ha ritenuto che le espressioni utilizzate dal magistrato in occasione del suo intervento sul blog, integrassero il delitto di diffamazione.
Offesa agli avvocati da parte del magistrato, il percorso della Cassazione
La Corte di Cassazione ha ritenuto errata la decisione, giacché non può ravvisarsi responsabilità se l’offesa non è rivolta ad una persona, ma ad una categoria.
La impossibilità di ricondurre le espressioni oggetto di incolpazione nel delitto di diffamazione per la inesistenza di un destinatario identificato o identificabile comporta, affermano invero i Giudici, la erroneità della decisione, nella parte in cui ha ritenuto integrato l’illecito di cui al richiamato art. 4, lettera d), del D.Lgs. n. 109/2006.
Inoltre, nella fattispecie sottoposta all’esame della Corte, la Sezione disciplinare ha ritenuto che l’utilizzazione delle espressioni in questione integrasse, oltre all’illecito di cui all’art. 4, lettera d), quello di cui all’art. 2, lettera d).
Anche sotto tale profilo la decisione adottata risulta errata, non avendo la Sezione verificato se la partecipazione ad un forum di discussione sui temi della giustizia, anche se solo nell’ambito di un determinato foro, potesse integrare la fattispecie di un illecito funzionale.
Invero, affermano i Giudici, se solo la Sezione disciplinare si fosse interrogata sulla riconducibilità delle dichiarazioni rese dal magistrato all’esercizio delle funzioni, certamente si sarebbe avveduta che gli illeciti di cui all’art. 2 del D.Lgs. n. 109/2006, e segnatamente proprio quello di cui alla lettera d), postulano che la condotta disciplinarmente rilevante sia posta in essere nell’esercizio delle funzioni.
La Sezione disciplinare, pur non dubitando che «la libertà di manifestazione del pensiero, sancita nell’articolo 21 della Costituzione, sia riferibile a tutti e dunque anche al magistrato nell’esercizio e al di fuori delle funzioni nei limiti e nei parametri fissati dalla giurisprudenza», riteneva tuttavia che la semplice manifestazione del pensiero, ancorché in forme in ipotesi eccedenti il limite della continenza, ove si esplichi nella partecipazione ad un dibattito sui temi dell’amministrazione della giustizia in un determinato ufficio giudiziario, comporti essa stessa esercizio delle funzioni e possa quindi integrare l’illecito disciplinare di cui all’art. 2, lettera d).
Per la Cassazione una simile impostazione postula un improprio allargamento della nozione di esercizio delle funzioni del magistrato, che certamente non trova fondamento nella lettera e nella ratio della disposizione applicata, la quale postula un comportamento scorretto del magistrato nei confronti «delle parti, dei loro difensori, dei testimoni o di chiunque abbia rapporti con il magistrato nell’ambito dell’ufficio giudiziario».
La manifestazione del pensiero di un magistrato, anche allorquando abbia ad oggetto opinioni relative a temi inerenti alla organizzazione di un ufficio giudiziario e al suo funzionamento, ovvero al comportamento dei soggetti in quell’ufficio operanti, e sempre che la manifestazione del pensiero non si espliciti attraverso riferimenti individualizzanti (nel qual caso, ricorrendo la natura ingiuriosa delle espressioni utilizzate potrebbe essere configurato il delitto di cui all’art. 595 cod. pen. e l’illecito di cui all’art. 4, lettera d), del D.Lgs. n. 109/2006: ipotesi, questa, che come si è visto non può ritenersi sussistente nel caso di specie), non cessa di costituire espressione di una libertà costituzionale, che la stessa Sezione disciplinare ritiene esercitabile anche dai magistrati, e non diventa esercizio di funzione giurisdizionale.
Adriana Costanzo per Norma.dbi.it
28/03/2017