Non basta essere fermati alla guida con l’alito vinoso a dimostrare la guida in stato di ebbrezza. La sentenza 23 del 5 gennaio 2016 della IV sezione della Corte di Cassazione, infatti, ha precisato che è illegittima la condanna per i reati previsti dal comma 2 dell’art. 186 del Codice della strada qualora l’accertamento dello stato di ebbrezza si fondi solamente su «circostanze sintomatiche» riferite dagli agenti accertatori e «manchi una motivazione che renda evidente il superamento di tale soglia».
In particolare, i giudici di legittimità puntualizzano che le disposizioni contenute alle lett. a), b) e c) dell’art. 186, co. 2, descrivono fattispecie autonome, ordinate secondo un ordine crescente di gravità e caratterizzate da «rapporto di reciproca alternatività e, quindi, di incompatibilità». Peraltro, argomenta la Corte, l’indicazione nella disposizione di specifici parametri eleva il superamento della soglia ad «elemento costitutivo del fatto tipico» e pertanto il suo accertamento non può essere affidato a valutazioni di elementi sintomatici quali «l’alito vinoso, l’eloquio sconnesso, l’andatura barcollante, le modalità di guida o altre circostanze», ma deve compiersi attraverso verifiche strumentali (etilometro o analisi ospedaliere).
A ciò si aggiunga che, in assenza di una motivazione che renda evidente il superamento della soglia fissata dall’articolo 186, comma 2, lett. a), la sopravvenuta depenalizzazione della percentuale più bassa di alcol nel sangue (inferiore a 0,50 g/l), impone sempre l’applicazione della normativa più favorevole ed esclude pertanto la condanna.
Articolo a cura dell’Avv. Andrea Merlo
14/01/2016