Come già annunciato dal nostro Studio Legale (leggi l’articolo) le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione si sono pronunciate sull’importante questione riguardante l’abuso del ricorso del contratto a termine, oltre i trentasei mesi, nell’ambito del pubblico impiego.
Più precisamente, la questione riguarda alcuni lavoratori alle dipendenze di una Azienda Ospedaliera che, a causa della reiterata stipulazione di diversi contratti a tempo determinato senza soluzione di continuità, in assenza di presupposti che ne giustificassero l’apposizione del termine, hanno chiesto che il rapporto venisse considerato a tempo indeterminato sin dalla prima assunzione.
La Sezione Lavoro della Suprema Corte, tuttavia, con diverse pronunce, ha individuato il solo diritto del lavoratore al risarcimento del danno, e non anche alla costituzione del rapporto a tempo indeterminato, in caso di abuso del termine nell’ambito del pubblico impiego, con riferimento a fattispecie diverse da quelle del precariato scolastico (cfr. Cass. 27481 del 30.12.2014).
Con riguardo al diritto del risarcimento del danno si è creato un contrasto interno alla Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, in quanto le diverse pronunce hanno richiamato norme diverse al fine della determinazione del danno risarcibile, ovvero la Suprema Corte con Sentenza n. 19371/2013, ha stabilito che residua soltanto il risarcimento del danno, determinato ai sensi dell’art. 32, commi 5 e 7 della legge 4 ottobre 2010, n. 183 (da un minimo di 2,5 ad un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione, “a prescindere dall’intervenuta costituzione in mora del datore di lavoro e della prova concreta di un danno, trattandosi di indennità forfetizzata e onnicomprensiva per i danni causati dalla nullità del termine” (cfr. §10.1 Ordinanza Interlocutoria Cass. Sez. Lav. n. 16363/2015 del 4.08.2015). E con la Sentenza n. 27481 del 30.12.2014, invece, la Suprema Corte ha individuato quale sanzione “ex lege”, il criterio di cui all’art. 8 della legge 15 luglio 1966 n. 604 (da un minimo di 2,5 ad un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione).
Stante il superiore contrasto, la Sezione Lavoro della Suprema Corte, con Ordinanza Interlocutoria n. 16363/2015 del 4.08.2015, ha rimesso la questione al Primo Presidente della Corte per l’assegnazione del ricorso promosso dai dipendenti dell’Azienda Ospedaliera alle Sezioni Unite.
Dunque, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con Sentenza n. 5072 del 15 marzo 2016, pur non riconoscendo la possibilità della conversione del contratto a tempo indeterminato, in caso di abuso dell’apposizione del termine, hanno stabilito che trova applicazione l’art. 32, comma 5, della L. n. 183 del 2010: “che prevede – per l’ipotesi di illegittima apposizione del termine al contratto a tempo determinato nel settore privato che “il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura comprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8” (in tal senso già Cass. 21 agosto 2013, n. 19371)”…. “Il Lavoratore è esonerato dalla prova del danno nella misura in cui questo è presunto e determinato tra un minimo e un massimo.
Il danno così determinato, secondo le Sezioni Unite, può essere qualificato come “danno comunitario”, tenuto conto che esso “vale a colmare quel deficit di tutela, ritenuto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, la cui mancanza esporrebbe la norma interna (art. 36, comma 5, cit.), ove applicabile nella sua portata testuale, ad essere in violazione con la clausola 5 della direttiva…”
Le Sezioni Unite hanno, altresì, precisato che soltanto il lavoratore pubblico (e non anche quello privato) ha diritto al risarcimento del danno senza l’onere di provarlo, a differenza del lavoratore privato che, invece, potrà far valere il diritto alla conversione del rapporto.
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Approfondimento a cura dell’Avv. Maria Saia
23/03/2016