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Il rapinatore pauroso se la dà a gambe. Nessuna desistenza: tentativo

(Da Norma.dbi.it)

Non può parlarsi di desistenza volontaria per il rapinatore che si fa prendere dal panico per le grida della titolare della tabaccheria che aveva preso di mira e fugge via: resta un tentativo di rapina.

norma_default200La scena iniziale è delle più classiche, quasi scontata. Un uomo col volto travisato e l’arma in pugno irrompe in una tabaccheria e minaccia gli astanti per farsi consegnare gli incassi della giornata. Com’è ovvio, la cassiera alla vista di un uomo così equipaggiato comincia a strillare per richiamare l’attenzione e chiedere aiuto. Tutto normale, si direbbe. Ma non per il rapinatore che si fa prendere dal panico e tenta di tagliare la corda ma viene acciuffato dopo pochi metri da alcuni passanti. Ed è su questa pessima performance come rapinatore gli avvocati hanno tentato di imbastire la linea difensiva offrendo una ricostruzione dei fatti secondo cui la fuga andrebbe interpretata non come il fallimento di un tentativo di rapina, ma costituirebbe una forma di desistenza volontaria ex art. 56, co. 3, cod. pen.. Purtroppo per il pavido rapinatore, però, neanche questo tentativo di farla franca gli è andato bene. I giudici della seconda sezione penale ricordano infatti che l’idoneità degli atti cui fa riferimento l’articolo 56 del codice penale per valutare la rilevanza delle azioni compiute ai fini della configurabilità del tentativo deve essere valutata con giudizio ex ante, tenendo conto delle circostanze in cui opera l’agente e delle modalità dell’azione. In questi casi «l’azione non si compie o l’evento non si verifica» per ragioni non volute dall’agente. Viceversa, la desistenza presuppone l’abbandono volontario del proposito criminoso, evenienza che può concepirsi solo se ancora sussiste la possibilità di consumare il delitto. Per chiarire ogni dubbio, peraltro, la Corte argomenta che la volontarietà degli atti non va confusa con la spontaneità. Per aversi desistenza, dunque, la scelta di non proseguire nell’azione criminosa non deve essere necessitata, ma operata in una situazione di libertà interiore, indipendente da fattori esterni idonei a condizionare la libera determinazione dell’agente.
In sostanza, in tema di tentativo, «ricorre l’ipotesi di desistenza volontaria solo qualora l’agente abbia ancora l’oggettiva possibilità di consumare il reato in quanto ancora nel pieno dominio dell’azione in atto» e ciò perché per aversi desistenza volontaria dall’azione delittuosa occorre che la determinazione del soggetto agente sia stata libera e non coartata «e, cioè, che la prevalenza dei motivi di desistenza su quelli di persistenza nella condotta criminosa si sia verificata al di fuori delle cause che abbiano impedito il proseguimento dell’azione o l’abbiano reso assolutamente vano». Così inquadrato l’istituto, la corte ha ritenuto corretta la ricostruzione proposta dai giudici di merito che hanno attribuito la fuga alla perdita del pieno controllo dell’azione da parte del rapinatore che nulla ha a che vedere con la desistenza volontaria nel senso richiesto dal comma 3 dell’art. 56 cod. pen.: ancorché prevedibili, sono state le grida della donna a determinare la fuga e ad agevolare la cattura, non una scelta maturata naturalmente nella mente del rapinatore.

(Andrea Merlo per Norma.dbi.it)

13/04/2016

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